mercoledì 24 agosto 2011

LA MOTIVAZIONE

viene da dentro o da fuori? Quando si parla di motivazione non si sa mai da che parte incominciare. Ci sono allenatori che ritengono che la motivazione sia un indefinibile dono di natura, per cui un atleta o la possiede o no. C'é chi, sentendosi come John Belushi "in missione per conto di Dio", ritiene che la motivazione sia un dono di inestimabile valore da consegnare ai propri atleti nel momento in cui si ritenga giusto farlo.
I primi di solito cercano di selezionare atleti simili a loro, circondandosi di persone che la pensano nel loro stesso modo dal punto di vista dell'atteggiamento o del concetto di squadra.
Entrambi questi atteggiamenti non sono esaustivi. Pensare che gli atleti vogliano o non vogliano fare qualcosa "per natura" o che solo l'allenatore potrá darà loro la motivazione per farlo non è solo un ottica ipersemplificata, ma è del tutto negativa. Alcuni allenatori ritengono erroneamente che un atleta non sia motivato quando questi si oppone a fare tutto ciò che l'allenatore pretende. Ma spesso gli atleti che si oppongono alle direttive dell'allenatore sono, invece, fortemente motivati allo sport. Essi sono soltanto non motivati ad accettare le strutture e i metodi dettati dal loro allenatore. Alcuni atleti vogliono fare a modo loro, e quando fanno così, gli allenatori li considerano come un "problema disciplinare", in special modo quegli allenatori che tendono a mantenere la loro posizione di potere all'interno della squadra. La fonte di conflitto tra allenatore ed atleta emerge spesso dal tentativo dell'allenatore di soddisfare le proprie esigenze attraverso la squadra, piuttosto che considerare le esigenze degli atleti. Drop-out, coinvolgimento e divertimento Proviamo a concentrarci su due concetti importanti:
1) spesso il più grande impegno di un allenatore non è costruire la motivazione negli atleti, ma evitare di distruggere la motivazione intrinseca allo sport che essi già possiedono.
2) Gli allenatori dovrebbero strutturare gli allenamenti in forma divertente, organizzandoli in base alla varietà e al massimo coinvolgimento di tutti i giocatori.
Il primo punto assume una importanza decisiva soprattutto quando si ha a che fare con ragazzi di settore giovanile. Il fenomeno del "Drop Out", dell'abbandono precoce dello sport, é un grande problema specialmente per gli sport come il nostro. La pallavolo, infatti, é uno sport molto "tecnico", dove per riuscire a giocare divertendosi bisogna avere acquisito delle abilitá che richiedono tempo e pazienza e la cui costruzione passa attraverso esercitazioni che possono essere anche un po'... noiose. Secondo una importante ricerca sul drop out (Sapp & Hanbenstricker, 1978) i principali fattori di abbandono sono proprio: problemi con l'allenatore o con i compagni, l'eccesso di competizione, la noia e poi, ma soltanto dopo, altri interessi e infortuni.
Ogni allenatore di settore giovanile dovrá dunque avere ben chiari i tre principali rischi di abbandono: i problemi con la sua persona o fra "compagni" di squadra, l'eccesso di competizione e la noia. Riguardo a quest'ultimo punto voglio ricordare un esempio abbastanza significativo che risale ad una mia esperienza un po' lontana nel tempo ma per me molto formativa.
Ero stato incaricato dalla mia societá (era il Cus Torino e si parla degli inizi degli anni '90) di coordinare l'attivitá dei nostri istruttori di minivolley nella scuola elementare. Nel corso delle mie visite alle scuole ricordo un istruttore che, secondo la sua progressione didattica, stava insegnando il palleggio.L'immagine che vidi era quella di una quindicina di bambini di quarta elementare allineati davanti ad un muro e "costretti" a palleggiare contro il muro per venti minuti. Sono pronto a scommettere che di quei bambini oggi nessuno gioca a pallavolo.
Perché per loro la pallavolo, non rappresenterá altro che quel muro grigio...
Questo esempio ci serve dunque per arrivare al secondo punto: il divertimento e il coinvolgimento dei propri atleti. Se questo é importante in serie A, immaginerete che diventa assolutamente decisivo nelle categorie inferiori e nei settori giovanili.
Divertimento e coinvolgimento, a tutti i livelli dal settore giovanile in su, passa spesso attraverso un semplicissimo esercizio: il gioco 2 contro 2 o 3 contro 3 su campo ridotto! Non dimentichiamo mai di inserirlo nei nostri piani di allenamento. Ogni singolo atleta tocca centinaia di volte in piú il pallone, essendo sempre al "centro" dell'azione di gioco: coinvolgimento e divertimento appunto! Non temete che fare questi giochini vi faccia perdere sincronie ed automatismi del 6 contro 6: spesso succede l'esatto contrario!
Allenatori, motivatori e psicologi dello sport Alcuni allenatori oggi fanno propri quei pacchetti motivazionali, sussidi audiovisivi e consulenti che si autodefiniscono (a torto) psicologi dello sport. Molti di questi metodi sono superficiali.
E costituiscono, tra l'altro un approccio a breve termine a quella che è invece una sfida a lungo termine. È come se in una macchina mettessimo nel motore una benzina "speciale" che permette di sviluppare per qualche ora una velocitá superiore.
Ma terminata la benzina il motore torna ad essere quello di prima (forse un pó piú usurato).
Gli interventi decisivi e duraturi nel tempo sono invece quelli che vanno a "modificare" strutturalmente il motore.
Per fare questo crediamo che nessun allenatore possa delegare ad altri la propria responsabilità di dirigere la motivazione dei propri atleti. L'allenatore è parte troppo vitale della squadra per poter abdicare da questa responsabilità. Ma proprio per poter svolgere al meglio questo compito riteniamo importante che sia lo stesso allenatore a "motivarsi" magari appoggiandosi a dei consulenti veri che conoscono realmente il beneficio che la psicologia dello sport può costituire
. La psicologia dello sport é una scienza, "l'arte" della motivazione é una cosa molto piú difficile da definire, ma facile da vendere. Insomma: attenzione ai venditori di fumo.
Mauro Berruto

domenica 7 agosto 2011

ANALISI delle DIVERSE TIPOLOGIE di RICETTORE/ATTACANTE

http://www.federvolley.it/CMS/upload/file/pdf/cqn/settoreallenatoreatleti/materialetecnico/BUFFOLI%20MARILENA.pdf                                                                                                                                     QUANDO SI DIVENTA UN TEAM? 2

In quale momento un insieme di persone diviene un gruppo?

Il gruppo di lavoro è un o strumento potentissimo per la Qualità se si impara ad utilizzarlo bene.
Questa settimana vi proponiamo la seconda parte di un articolo pubblicato su Professione Lavoro.
Di seguito i sette elementi chiave per la costruizione e l'evoluzione di un 'gruppo di lavoro':
Obiettivo
Nessun gruppo di lavoro può essere efficace se l'obiettivo che deve raggiungere non è chiaro e ampiamente condiviso dai suoi membri.
L'obiettivo di un gruppo di lavoro efficace deve essere definito in termini di risultato, costruito su dati osservabili e risorse disponibili, espresso in termini chiari, chiarito e articolato in compiti, e infine valutabile. Un obiettivo chiaro e ben esplicitato contribuisce a consolidare la coesione e il senso di appartenenza al gruppo da parte dei suoi componenti e contemporaneamente contribuisce a definire in maniera chiara il rapporto con l'organizzazione, quindi il clima interno.
Metodo
Il metodo assume per il gruppo una duplice accezione: da una parte stabilisce i principi, i criteri e le norme che orientano l'attività del gruppo, dall'altra richiama le modalità di organizzazione e strutturazione efficace dell'attività stessa.
Un buon metodo di lavoro da sicurezza al gruppo e permette un miglior utilizzo nell'uso e nella gestione delle risorse disponibili.

Ruolo
Il ruolo rappresenta la parte assegnata a ciascun membro del gruppo in funzione del riconoscimento delle sue competenze e capacità; esso racchiude poi anche l'insieme dei comportamenti che ci si attende da chi occupa una certa posizione all'interno del gruppo stesso.
Fondamentale per un efficace sistema di ruoli è la qualità della comunicazione interna al gruppo stesso perché un suo corretto funzionamento permette che si realizzi corrispondenza tra attese e richieste dei singoli e prestazioni e comportamenti del gruppo.

Leadership
La leadership è la variabile di snodo tra le variabili di tipo strutturale, quali obiettivo, metodo e ruoli, e variabili di tipo processuale, quali clima, comunicazione e sviluppo.
Il leader si definisce in primo luogo come un professionista di relazioni, anche se non esiste "il buon leader" per antonomasia, ma piuttosto si dovrebbero definire delle funzioni di leadership efficacemente svolte e ruoli di leader ben negoziati e definiti.

E' inoltre importante che la funzione di leadership sia quanto più possibile circolare e diffusa a seconda degli obiettivi e dei compiti del gruppo nelle diverse occasioni.
Questo significa che esisterà un leader istituzionale, che è quello individuato dall'organizzazione e che avrà la responsabilità e l'autorità del ruolo formalmente affidatogli, ma che proprio grazie ad essi, questo leader avrà la facoltà di scegliere i leader situazionali di volta in volta più idonei al perseguimento degli obiettivi del gruppo stesso.
Dunque egli avrà il compito di individuare, sulla base della conoscenza delle competenze degli altri membri del gruppo, quelle persone che di volta saranno più idonei ad affiancarlo e a cui potranno essere delegati compiti e funzioni necessari per il buon funzionamento del gruppo stesso.

Comunicazione
La comunicazione è il processo chiave che permette il funzionamento del lavoro di gruppo poiché permette lo scambio di informazioni finalizzato al raggiungimento dei risultati. Tuttavia essa orienta ed è a sua volta orientata dal sistema di relazioni e ruoli presenti nel gruppo stesso.
Essa presuppone tre livelli:
  • uno interattivo, che va a impattare sulla struttura relazionale del gruppo;
  • uno informativo, che è relativo allo scambio e all'elaborazione di materiali e conoscenze inerenti il lavoro;
  • uno trasformativo, che concerne gli scambi che producono il cambiamento
Il processo comunicativo diventa anche il luogo di verifica del linguaggio del gruppo e la definizione del codice.
Clima
Il clima consiste nell'insieme degli elementi, delle opinioni, delle percezioni dei singoli membri rispetto alla qualità dell'ambiente del gruppo e della sua atmosfera. Una buona percezione del clima si attua quando c'è un giusto sostegno e calore nel gruppo, i ruoli dei singoli sono riconosciuti e valorizzati, la comunicazione è aperta, chiara e fornisce feedback accettabili sui comportamenti delle persone e sui risultati conseguiti dal gruppo.
Una leadership partecipativa e gli obiettivi opportunamente calibrati alle capacità del gruppo sono tra i fattori che maggiormente influenzano il clima.

Sviluppo
Questa variabile identifica la costruzione del sistema di competenze del gruppo di lavoro e parallelamente la crescita del sistema delle competenze individuali. I due processi dovrebbero portare da una parte allo sviluppo del singolo all'interno del gruppo e dall'altra alla creazione all'interno del gruppo di un sapere condiviso e diffuso e alla capacità di lavorare in modo efficace.(QualitiAmo)

venerdì 5 agosto 2011

PARTIRE dal GIOCO, con L'IDEA di INSEGNARE a GIOCARE

http://www.pallavoloazzanese.it/METODOLOGIAINSEGNAMENTO.pdf                                                                 
La soluzione sta nella definizione di open skills e closed skills ...        QUANDO SI DIVENTA UN TEAM?

In quale momento un insieme di persone diviene un gruppo?

Il gruppo di lavoro è un o strumento potentissimo per la Qualità se si impara ad utilizzarlo bene.
Questa settimana vi proponiamo questo articolo in due parti pubblicato su Professione Lavoro.
In un momento in cui il concetto di “gruppo” sta forse diventando anche un po’ inflazionato proviamo a dare qualche riferimento concettuale e operativo su ciò di cui stiamo parlando.
Di per sé il termine gruppo, usato in modo generico ci dà infatti pochi strumenti operativi.
Quando parliamo di gruppo in azienda parliamo di “Gruppo di lavoro”, che è ben diverso dal gruppo sociale.
Un gruppo di lavoro è costituito da un insieme di persone che interagiscono fra di loro con una certa regolarità, nella consapevolezza di essere interdipendenti uno dall’altro e di condividere gli stessi obiettivi e gli stessi compiti. Ognuno svolge un ruolo specifico e riconosciuto, sotto la guida di un leader, basandosi sulla circolarità della comunicazione, preservando il benessere dei singoli (clima) e mirando parallelamente allo sviluppo dei singoli componenti del gruppo stesso.Il gruppo di lavoro, rispetto al gruppo di amici, per fare un esempio, non è un gruppo che “si è scelto volontariamente” ma è un gruppo i cui componenti sono stati messi insieme in maniera “forzata”. Non possiamo certo sceglierci sempre e solo “per affinità” o “per simpatia” in azienda!Questa è una considerazione importante ed un aspetto da tenere presente nel momento in cui andiamo a stabilire i nostri parametri di osservazione del gruppo di lavoro e nel momento in cui andiamo a costruire i presupposti per lavorare bene insieme e per rendere il gruppo efficace ed efficiente.Perché un gruppo di lavoro possa evolversi e maturare nel tempo e per permettere una maggiore collaborazione tra i suoi membri ed una partecipazione più attiva di ciascuno è necessario che si passi dalla semplice interazione ad una vera e propria integrazione, in modo tale che i partecipanti al gruppo possano condividere bisogni ed esigenze. La realizzazione concreta della collaborazione all’interno del gruppo, è poi facilitata dal meccanismo della negoziazione, che permette il confronto ed il passaggio dal punto di vista dei singoli individui ad un punto di vista comune e condiviso per realizzare al meglio gli obiettivi.
Quando si parla di gruppo è fondamentale tener presente che il gruppo vive su due livelli che sono di pari importanza, il livello dell'obiettivo e il livello della relazione, si parla infatti di orientamento all'obiettivo e orientamento alla relazion. Nessuno dei due livelli può essere definito prioritario, è importantissimo tenere l'alta e costante l'attenzione su entrambi gli aspetti se vogliamo che tutto funzioni. (QualitiAmo)

lunedì 1 agosto 2011

physical training for volleyball team

TEORIA DELL’ALLENAMENTO

L'esercizio fisico è in grado di indurre profondi cambiamenti nell'organismo umano; riuscire a valutare e pilotarne gli effetti, per lo meno quelli che investono la sfera biomeccanica, è di estrema importanza affinché esso venga indirizzato nella maniera corretta in un preciso campo delle attività motorie.
Nel campo sportivo l'esercizio fisico comporta un impegno muscolare intenso che rende l'organismo più recettivo ad una somministrazione periodica degli stimoli allenanti, e adattabile carichi sempre più intensi, così da  produrre una performance sempre più elevata (obiettivo finale).
Nel campo riabilitativo, invece, il processo di rieducazione di un gruppo muscolare costretto ad inattività in seguito ad un trauma, può essere inteso come riadattamento dello stesso ad un lavoro svolto precedentemente con riconsolidamento completo della piena sinergia con altri gruppi muscolari impegnati nel gesto motorio (obiettivo finale).
Ambedue i casi richiedono un impegno ripetitivo, anche se differiscono nel contenuto del lavoro da svolgere, ma devono seguire scrupolosamente certe regole ben precise, quali le leggi della teoria dell'allenamento, scaturite dalla conoscenza di quella catena di risposte fisiologiche che l'organismo oppone a stimoli esterni definita come “sindrome generale di adattamento”.
Tale definizione trae le sue origini dal concetto espresso da Selye secondo cui l’organismo reagisce sempre ad uno stress prolungato dovuto sia a fattori esterni che interni, per mantenere il suo equilibrio interiore, attraverso tre fasi che si articolano sempre in successione:
1. - reazione di allarme: fase di shock (nella quale l'organismo subisce passivamente l'azione dell'agente alterativo) seguita da una di contro-shock, (nella quale l'organismo mobilita le sue difese); in questa fase le reazioni dell'organismo sorpassano il reale bisogno di compensazione
2. - fase di resistenza nella quale l'organismo aumenta la sua resistenza verso il fattore dannoso contro le azioni nocive che lo colpiscono.
3. - fase di esaurimento nella quale l’organismo soccombe agli agenti dannosi. Essa può comparire più o meno tardivamente in rapporto alle capacità di risposta dell'organismo stesso e all'intensità dello stress, come può anche mancare qualora lo stress si esaurisca in tempo utile.

L'attività muscolare diventa uno degli “stressor” (stimolo abnorme che aggredisce l'organismo) più importanti ed è caratterizzato dal fatto di provocare un periodo di shock molto breve e debole, seguito da fenomeni molto pronunciati di contro-shock. Le cause di stress durante l'esercizio fisico sono varie e naturalmente si potenziano reciprocamente con effetto di sommazione.
La ripetizione dello stress fisico (esercizio fisico o STIMOLO ALLENANTE) determina un effetto variabile secondo l'intensità della precedente esposizione allo stress stesso, e la durata del periodo di riposo fra le due esposizioni (fase di ADATTAMENTO). E' proprio in questa fase che si instaurano e si consolidano i fenomeni di adattamento ricercati dalla specificità dello stimolo proposto.
Se la prima esposizione non è stata troppo severa, e la durata della fase di adattamento (riposo) è stata sufficiente, la seconda esposizione trova l'organismo già predisposto e con un grado di adattamento superiore in partenza (SUPERCOMPENSAZIONE). Ciò porta ad un successivo innalzamento della resistenza allo stimolo specifico rispetto a quella che aveva la prima volta, purché il tempo intercorso tra le due esposizioni non sia eccessivo e l'organismo ne conservi il ricordo. In questo caso, una nuova esposizione ben dosata anche se più intensa della precedente, farà aumentare ancora la capacità di adattamento e di resistenza; si costituirà così per ripiani di allenamento, un aumento della resistenza predisponendo il sistema ad impegni sempre più gravosi.
L’organismo si adatta a tale successione di stress con precise "reazioni specifiche" che si esplicano con l'ipertrofismo muscolare, ipertrofismo cardiaco ecc..
Contrariamente, se le esposizioni allo stress fisico sono troppo severe per intensità e durata o intervallate da periodi troppo brevi di riposo, il risultato è inverso al precedente: la resistenza si installa ad un ripiano più basso in modo da prevaricare tale fase e favorire l'insorgere della fatica acuta (fase di esaurimento corrispondente alla “sindrome da superallenamento”). Una corretta organizzazione del lavoro muscolare, quindi, deve prevedere una razionale distribuzione del rapporto stimolo adattamento affinché si possa esaltare al massimo l'effetto della supercompensazione.
Il collocamento di uno stimolo (CARICO DELLA SEDUTA DI LAVORO) maggiore va inserito quando la supercompensazione precedente può essere considerata completamente avvenuta.
Alcuni stimoli allenanti hanno tempi di supercompensazione abbastanza brevi, altri invece, si manifestano in forma significativa anche dopo molti giorni. Tale dinamica viene definita ETEROCRONISMO delle funzioni e la sua conoscenza è fondamentale per la programmazione dell'allenamento.
I carichi di lavoro, tra le varie sedute devono essere incrementati gradualmente e progressivamente ma alternati da precise fasi di sfogo, nelle quali il carico deve diminuire, e fasi di riposo. E’ in tali periodi che avviene l'adattamento organico, vale a dire l’insediamento di quei meccanismi che ripagano il lavoro effettuato accrescendo così le riserve funzionali e predisponendo il sistema biologico ad un impegno più gravoso. 
Questo tipo di distribuzione dello stimolo-adattamento deve avvenire mediante un'organizzazione ciclica per garantire la ripetizione dello stimolo in tempi utili per sfruttare la supercompensazione.
Pertanto il contenuto di ogni singola seduta deve essere articolato in modo consequenziale con quello della seduta successiva, in modo da razionalizzare al massimo il processo di costruzione di quello che è il microciclo settimanale di allenamento, vale a dire, quel periodo relativamente breve all’interno del quale sono articolati gli allenamenti di una  singola settimana. L’insieme di più microcicli costituiscono i cosiddetti mesocicli (della durata di circa un mese e formati da più microcicli) che messi tra loro insieme concorrono nel formare quella che va sotto il nome di PERIODIZZAZIONE DELL’ALLENAMENTO,  che è alla base di una razionale costruzione della stagione sportiva.

Pallavolo “Un libro per la settimana”

 – Il ruolo del libero spiegato da Mencarelli e Paolini

Carosello Pallavolo femminile By: Elena Sandre — 30 gennaio 2011
Pallavolo “Un libro per la settimana” - Il ruolo del libero è senz’altro quello più recente e, per certi versi, quello più difficile da inquadrare soprattutto a livello psicologico. Per chi è nato, pallavolisticamente parlando, prima del 2000, il ruolo del libero è  stato visto per diverso tempo come deficitario, come il giocatore che fa “solo” il lavoro di seconda linea, senza mai decidere (come invece fa il palleggiatore) e senza mai fare punto e provare l’emozione di “mettere giù la palla”. Con gli anni, questa visione del libero è stata fortunatamente abbandonata, lasciando spazio ad una figura fondamentale e professionalmente affascinante: un ruolo per certi versi di abnegazione, di chilometri macinati, di tuffi andati a vuoto. Il ruolo di chi dà tutto, insomma, di chi non trova spazio per la medaglia personale in termini di punti, ma che vince invece solo e insieme alla sua sqaudra. Bene, sul ruolo del libero Marco Mencarelli e Marco Paolini hanno scritto un libro dal titolo “I ruoli nella pallavolo maschile e femminile. Tenica e didattica specifica del libero. Con DVD”.
Nel testo, così come nei video, viene soprattutto approfondito il fondamentale della difesa proponendo un’accurata analisi dal punto di vista tecnico e didattico con esercitazioni analitiche e situazioni assimilabili a quelle di gara. Attenzione particolare viene posta anche agli aspetti di carattere mentale che si celano dietro il fondamentale della difesa: la cosiddetta mentalità vincente. L’eserciziario pratico è elaborato su esperienze di carattere sperimentale ma già ampiamente collaudate dagli autori nel volley maschile e femminile.
Marco Paolini, classe 1957 nato ad Ancona, ha sempre svolto ruoli importanti, spesso a fianco degli allenatori. Ha allenato a Falconara, Macerata, Pineto, Castelfranco, nonché la Nazionale italiana come secondo coach nel 1990 alla World League. Dietro di sé, porta un record: nel 1985/86 è stato l’allenatore più giovane di tutta la serie A1.
Marco Mencarelli è l’attuale allenatore delle Azzurrine, le giocatrici della squadra Juniores della Nazionale italiana di pallavolo. Già al fianco di Marco Bonitta nella Nazionale senior che vinse i primi Mondiali nel 2002, Mencarelli da sempre si dimostra scopritore di nuovi talenti e allenatore capace di creare gruppo e di insegnare a giocare a pallavolo: ideale per le giocatrici più giovani, quelle di domani.